Sandro Bonvissuto non è un caso editoriale. Sandro Bonvissuto è il gran visir di tutti i casi editoriali d’Italia. Debutta nel 2012 con il romanzo “Dentro” direttamente nei Coralli di Einaudi («Accanto ai premi Nobel», dice lui) ed è un successo pazzesco. Non pubblica più niente fino al 2020 («Avevo la mia vita da vivere» si giustifica) e poi torna in libreria con “La gioia fa parecchio rumore”, sempre per Einaudi, ed è un altro successo unanime di pubblico e di critica. Due storie completamente diverse tra loro, nel primo troviamo la violenza e la privazione, nel secondo l’immensità dell’amore. Entrambi diventeranno presto dei film.
“La gioia fa parecchio rumore” potrebbe sembrare un libro sul calcio perchè racconta l’educazione sentimentale di un bambino che agli albori degli anni 80 si innamora della Roma. Eppure non è così. E’ un libro che prende a pretesto il calcio per essere altro. Un libro sull’amore che ci travolge, un libro sulle passioni, un libro su Roma, un libro sulla famiglia, un libro sulla bellezza delle prime volte.
Io sono Matteo Belluti, questa è la newsletter della libreria Fogola, e quella che segue è una chiacchierata che non potete perdere. Ma prima sintonizziamoci sulla canzone scelta da Sandro per accompagnare questa intervista, che doveva per forza essere questa:
Ciao Sandro, cominciamo con la domanda da rifuggire come la peste. In questo caso me la gioco: quanto è autobiografica la storia che racconti? Sei tu quel bambino così innamorato della Roma? Ci sono i tuoi veri genitori, tuo zio e tuo nonno in questo libro? (Falcao è realmente esistito, non lo hai inventato tu, questo lo so).
«E’ la mia storia come quella di tanti altri ragazzini di quella generazione. Chiunque abbia più o meno la mia età ci si può rivedere. Certo, come sempre ci sono degli elementi autobiografici, ad esempio è vero che l’unica volta che mio padre mi ha menato è stata quando ai mondiali dell’82, Italia-Brasile, esultai come un pazzo al gol di Falcao tra gli insulti di tutti i presenti. Per me l’Italia era solo “un’espressione geografica”, Falcao era l’amore».
Capisco il motivo per cui non pronunci mai nel tuo libro il nome dell’altra realtà calcistica della capitale o di altre squadre rivali della Roma. Però come mai scegli di non nominare Falcao, Di Bartolomei, Rocca, Conti, Pruzzo, Ancelotti e altri eroi di quella Roma, che pure sono protagonisti della storia?
«E’ il mio tentativo di andare oltre il calcio, oltre le biografie dei campioni. Se togli il nome, togli il calciatore celebrato e resta l’uomo. Volevo questo. Anche perchè il calcio di cui parlo è un calcio più umano rispetto a quello di oggi. Ricordo ancora che d’estate andavamo al mare a Lavinio e lì poteva capitare di incontrare Bruno Conti in spiaggia con i suoi figli. Bruno Conti era uno dei giocatori più importanti del momento, oggi una cosa del genere non potrebbe accadere».
Il tuo libro celebra e racconta tante cose che stavano intorno al calcio, come la radio, lo stadio, Novantesimo minuto, le acrobazie che dovevamo fare per sapere i risultati delle partite di coppa. Tutte cose che quelli della nostra generazione hanno vissuto e che oggi non ci sono più.
«Anche un libro sulla famiglia. Anzi secondo me la famiglia è la vera protagonista del libro. Le famiglie come erano in quegli anni, già proiettate verso il benessere ma con ancora nella memoria la povertà e la fame. Famiglie numerose, con più generazioni mischiate insieme, case affollate, non come ora che quando entri in casa ti saluta solo il pesce rosso. Mi piaceva l’idea di raccontare quella famiglia che oggi non c’è più, che se lo legge uno svedese non ci crede. E quella era una società fortemente patriarcale, in cui però spesso la famiglia era tirata avanti dalle donne».
Che rapporto hai con il calcio di oggi? Era meglio quando era peggio?
«Io resto legato ai miei tempi, una visione più romantica del calcio. Che a sua volta è diversa dalla visione che aveva mio padre. Per mio padre il risultato non aveva nessuna importanza, anche perchè era abituato a vedere la Roma perdere. Noi invece abbiamo conosciuto una Roma che ogni tanto vinceva, quella di Dino Viola, eppure non riesco a capire i tifosi che oggi contestano la squadra dopo una sconfitta. Poi era anche un calcio più popolare, per famiglie, oggi invece vedere una partita, specie se hai figli, costa un patrimonio, così ti devi accontentare di uno schermo. Ma la passione dei giovani di oggi resta quella di sempre, però declinata agli strumenti che hanno a disposizione. Mio figlio ha 24 anni, è malato di Roma come me, e dopo la partita lo trovi incollato al telefonino che magari sta insultando un giocatore sui social..».
I tuoi figli hanno letto il tuo libro?
«Mia figlia sì, a mio figlio non gliene può fregare di meno ed è giusto così».
Calcio come religione, calcio come metafora dell’amore disperato che nulla chiede se non di essere manifestato, calcio come fattore che aggrega che identifica che tiene insieme. Ma non sarebbe meglio se tutta questa energia, questo amore, questo prendere parte, le persone lo dedicassero a cose più urgenti, valori più alti, come ad esempio la lotta ai cambiamenti climatici o che ne so alla mala-politica?
«Panem et circenses, lo dicevano già gli antichi romani che avevano capito come si tiene a freno il popolo. Un personaggio del mio libro ad un certo punto dice: “Certo che ci sono cose più importanti della Roma, solo che al momento non mi vengono in mente”. Insomma che ti devo dire, appassionarsi troppo è sempre sbagliato, sarebbe giusto dedicare impegno a cose più importanti, ma gli esseri umani non sono sempre giusti. E comunque vale anche appassionarsi e impegnarsi per più cose contemporaneamente».
Qual è il tuo rapporto con Francesco Totti?
«Domanda delicata questa… io penso che Totti da solo rappresenti la metà della storia della Roma. Quindi la sua grandezza è smisurata. Chiarito questo, io resto di un’altra generazione, il mio capitano è Agostino Di Bartolomei, un uomo solo, introverso, triste. Così è il mio capitano».
Sei un autore molto apprezzato, addirittura quasi idolatrato da alcuni, il tuo primo libro, che raccontava il carcere, aveva avuto un sacco di riconoscimenti e anche questo è andato benissimo sotto tutti i punti di vista, eppure tu continui a lavorare come cameriere in una trattoria, e dalle tue interviste che ho letto, è come se ci tenessi a distinguerti dal mondo degli scrittori e dell’editoria, degli intellettuali. E’ così?
«Non è una scelta mia, o un atteggiamento, è così e basta. Non ho amici tra gli scrittori, non frequento quel mondo, i miei colleghi lavorano nei ristoranti, continuo a pensare che la scrittura sia una cosa che si fa da soli, dentro casa».
Come sei diventato scrittore? Ci racconti il percorso che ti ha portato alla pubblicazione addirittura con Einaudi del tuo primo libro?
«Dalia Oggero, che è tuttora la mia editor, scovò un mio scritto che aveva partecipato ad un premio letterario regionale e venne a cercarmi a Roma, nella trattoria in cui lavoravo e in cui tuttora lavoro. Parlammo e in poco tempo ci accordammo per il libro. Così nacque “Dentro” che considero ancora oggi il mio miglior lavoro. Mi è capitato di recente di rileggerlo ad un evento e, pur con qualche errore definiamolo di gioventù, conserva intatta una potenza, secondo me, rara».
E come mai è passato così tanto tempo tra il primo e il secondo romanzo?
«Perchè non faccio lo scrittore a tempo pieno, la vita mi ha portato altrove. E forse c’è stata anche una sorta di rigetto di quella esposizione che non sentivo mia. Sicuramente oggi la vivo meglio, ora la scrittura è per me una opportunità espressiva che posso sfruttare e non subire».
Eccoci arrivati al momento tradizionale della nostra newsletter. I 4 consigli di lettura. Un libro sul calcio?
«Soriano e chi altro? Un autore che ho amato tantissimo. Futbol o “Pensare con i piedi”, vanno bene entrambi».
Il libro che meglio di ogni altro racconta Roma?
«Se mi costringi a risponderti ti dico “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”. Ma la realtà è che non esiste un libro che racconta Roma nella sua vera essenza, forse perchè tutti i più importanti libri su Roma sono stati scritti da non romani. Diciamo che Roma è stata raccontata meglio sul grande schermo».
Il libro che ti ha fatto venire voglia di scrivere?
«“Una solitudine troppo rumorosa” di Bohumil Hrabal. Lui è un autore cecoslovacco, in patria è considerato secondo solo a Kafka, del resto siamo tutti secondi a Kafka. Questo è un libro che si legge in pochissimo tempo ma ha dentro una forza esplosiva».
Il libro più divertente che hai letto?
«Il Fu Mattia Pascal io l’ho trovato molto divertente».
Grazie Sandro, evviva le prime volte. E adesso:
• Sabato 9 ottobre alle ore 18 FàGOLA ospita l’Artista Michela Phavakira Fava e la Dott.ssa Sara Polidori per un incontro sull'Arte dal titolo Prosopagnosia.
E’ l'unione di due parole greche “prosopon” e “agnosia”, ovvero “faccia” e “non conoscenza”. L'obiettivo è quello di ritrovare dei lati di sé mostrandoli in volti estranei e quindi non riconoscibili. In compagnia della Storica dell’arte Sara Polidori, vedremo poi che esiste una relazione tra la morfologia fisica e la nostra personalità, l’arte della Fisiognomica. Noi siamo la nostra faccia.
• Domenica 10 ottobre alle ore 17 da FàGOLA si parlerà de I SEGRETI DEL TÈ, in compagnia di Cose di Tè. Un viaggio alla scoperta della bevanda più antica del mondo tra equilibrio bontà e bellezza, unito ad una degustazione guidata.
Fabiola Ruggero di Cose di Tè è una donna che ha fatto della sua passione un lavoro. La sua selezione di più di 100 tipi di Tè e miscele è l’insieme di profumi, colori, aromi, sapori, proprietà, sensazioni che più ama e che ha creato per coinvolgere ogni volta che si cerca ispirazione e tranquillità.
Per prendere parte all’evento è richiesta la prenotazione all’email info@fagola.it
E’ tutto. Alla prossima!