Salve a tutti, io sono Matteo Belluti e questa che avete davanti agli occhi è la dodicesima puntata di Libri belli belli belli belli in modo assurdo, la newsletter concepita in collaborazione con la Libreria Fogola di Ancona.
Se non sbaglio questa è la prima volta che la newsletter fa scalo a Napoli e ad accoglierci all’aeroporto troviamo nientemeno che Alessio Forgione.
Nato a Napoli nel 1986, ha esordito nel 2018 con il romanzo Napoli mon amour, con cui ha vinto il Premio Berto, il Premio Intersezioni Italia-Russia e il Premio Mediterraneo per stranieri. Sono seguiti altri due romanzi, Giovanissimi del 2020 e Il nostro meglio uscito quest’anno. Se i primi due lavori erano editi da NNE, l’ultimo è invece pubblicato con La Nave di Teseo.
Il sottofondo scelto da Alessio per la nostra chiacchierata è We will fall degli Stooges:
Possiamo cominciare.
Ne “Il nostro meglio” torna Amoresano, già protagonista di Napoli mon amour, che qui viene “inquadrato” in due momenti della sua crescita, infanzia e post adolescenza. Il tema centrale del romanzo è il suo rapporto con la nonna. Non capita spesso di leggere libri incentrati sulla figura della nonna, come hai scelto questo tema?
«Non l’ho scelto. Scrivo delle cose che mi fanno vergognare, prima di averle provate e poi di averle scritte, e sono certo che anche se Amoresano dovesse campare mille anni la morte della nonna, così come si dispiega lungo tutto il corso del romanzo e della malattia, sarà il momento della sua vita di cui si vergognerà di più. Per me, era un obbligo morale scriverne».
Amoresano era anche il protagonista del tuo primo romanzo “Napoli Mon Amour”, quello però ambientato quando ha già 30 anni. Ti piacerebbe farlo diventare un personaggio seriale? Insomma di continuare a raccontarlo anche in altre fasi, passate o future?
«Quello che sto facendo non ha niente a che vedere con la serialità, concetto che, in fondo, non mi piace. Per me, i lettori devono essere liberi di entrare e uscire dalle storie che si trovano davanti: quindi Amoresano è tornato e forse tornerà ancora, ma sempre in questo modo: senza legami diretti con gli altri romanzi, e quindi non c’è nessuna serie o saga, ma un nucleo di personaggi e i lettori potranno leggere prima l’ultimo e poi il primo, ordinarli come gli pare, sono assolutamente liberi perché a me piace soprattutto la libertà».
La tua è una scrittura cupa, sempre carica di tensione strisciante, in cui il silenzio occupa molto spazio. Ed è ormai una tua cifra stilistica che ti rende riconoscibile e che ti ha dato tante gratificazioni. Ti viene mai voglia di cambiare registro, di buttarla in commedia?
«Così come gli uccellini dicono a Useppe ne La Storia di Elsa Morante, ovvero che tutto è uno scherzo tutto è uno scherzo, nient’altro che uno scherzo, così la penso pure io. Ai miei occhi tutto è già stato buttato in commedia, nostro malgrado. Precisamente, nella commedia umana, o dell’esistenza. Una commedia che non fa ridere nessuno, eccetto l’autore».
Ho letto che per la scelta del titolo ti sei affidato addirittura a Oliviero Toscani. Com’è andata?
«Non mi sono affidato. È stato uno scambio. Ho ipotizzato un “Del nostro meglio” e Oliviero Toscani m’ha fatto capire che era un titolo incompleto, che non intendevo esattamente questo, ma qualcosa di molto più specifico. Lui era per intitolarlo “Il nostro meglio” e a furia di pensarci mi è sembrato che avesse ragione e aveva ragione. Oliviero Toscani è un grande confidente, confido nella sua omertà ed è una persona che legge al di sotto delle parole. Sono molto felice all’idea di confrontarmi con lui».
Vivevi a Londra e lavoravi in un pub. Cosa cercavi quando hai scelto di partire e come mai hai scelto di tornare a Napoli?
«Quando sono partito da Napoli per Londra cercavo semplicemente uno stipendio, dato che a Napoli nemmeno a fare il macellaio mi prendevano. Poi, col tempo e gli eventi, ho capito che sostanzialmente mi piacerebbe cambiare, nella vita, fare e vedere cose, e che quando le cose non cambiano mi annoiano. Ovviamente, da persona costretta a fare sempre del proprio meglio, i miei cambiamenti impiegano secoli per mostrarsi. Più semplicemente, Londra mi aveva stancato, volevo scrivere di più e mi serviva più tempo e Napoli è una città poverissima e la vita, scrivendo, qui, è quasi affrontabile. È che le città povere sono i luoghi dove abitano le persone che fanno o producono cose che il mondo non gli ha richiesto, tipo scrivere romanzi. Napoli è, a volte, la mia isola che non c’è: un ristoro per i bimbi sperduti».
Ci racconti il percorso che ha portato alla pubblicazione del tuo primo, bellissimo, romanzo Napoli Mon Amour? Chi ci ha creduto?
«Ci ho creduto io. L’ho cominciato a gennaio del 2017, ho mandato una mail con il manoscritto e due mesi dopo ho firmato il contratto per la pubblicazione».
Dici spesso che scrivere è uno sforzo, forse necessario ma pur sempre faticoso, mentre leggere è molto più piacevole e facile. Qual è, se c’è, la tua routine da scrittore? E qual è invece il momento della giornata che dedichi al piacere di leggere?
«Prima scrivevo dalle 9:30 alle 19:30, tutti i giorni che potevo, e leggevo ovunque, soprattutto andando a lavoro. Oggi non ho più una vera routine. Se sono a casa, lavoro sempre, senza orari ma mai la sera, e si è molto sfumato anche il tempo tra scrittura e lettura. Ritengo la scrittura l’attività umana più difficile per chi scrive. Leggere, invece, per me, è la più rilassante. Se leggo non posso che pensare esclusivamente a quello che sto leggendo, tralasciandomi, me e la mia esistenza».
Siamo ai 4 libri consigliati da Alessio Forgione ai lettori.
Il romanzo che racconta meglio la Napoli di oggi?
«Napoli mon amour».
Il romanzo che hai riempito di sottolineature?
«Più o meno tutti».
Il libro più bello che hai letto quest’anno?
«Senz’altro La Storia di Elsa Morante, che ho riletto quest’anno dopo non so quanti».
Il protagonista con cui ti sei più immedesimato?
«Pinocchio».
Grazie Alessio, evviva l’amore smisurato delle nonne.