C’è ancora spazio in Italia per il romanzo politico? E lo scrittore ha il dovere morale di districare la complessità del presente? Facebook è fascista? Sono tutte tipiche domande agostane, argomenti da discutere con gli amici sotto l’ombrellone mentre si accoltella il cocomero.
Io sono Matteo Belluti e questa è la newsletter powered by Libreria Fogola Ancona che parla di libri belli. Ma stavolta parla un po’ anche di politica perchè l’ospite è Giovanni Dozzini, scrittore e giornalista perugino. Tra i suoi libri, voglio citare “E Baboucar guidava la fila” del 2018 e “Qui dovevo stare” (Fandango Libri) uscito all’inizio di quest’anno. Due romanzi profondamente politici, nel senso secondo me più nobile del termine.
Stabilito che la colonna sonora dell’intervista è questa qui
direi di cominciare da quest’ultimo romanzo, la storia di un imbianchino italiano, che ha un passato da militante di sinistra e un presente di vedute poco progressiste. Un po’ come le mie Marche e come l’Umbria, la regione in cui il romanzo è ambientato.
Quindi la prima domanda facile facile è: come e perchè siamo diventati (quasi) tutti più egoisti, razzisti, fascisti?
«L'Umbria è stata a lungo una regione rossa, protagonista di quello che alcuni hanno definito con una certa efficacia “Socialismo appenninico”. Le altre due regioni che ne sono state attraversate, Emilia-Romagna e Toscana, hanno retto, pur faticosamente, allo smottamento politico degli ultimi anni, l'Umbria no. Mi sono chiesto perché, e credo che la risposta sia in fondo piuttosto semplice. La società umbra, come tutta quella italiana, ha vissuto dalla crisi del 2007 in poi un impoverimento feroce. L'incattivimento generale, l'imbarbarimento prima di tutto sociale e culturale a cui abbiamo assistito in questi anni secondo me viene da lì. Dal punto di vista puramente politico, ovunque si è registrato, e si stava già registrando da qualche tempo, un calo della spesa pubblica. Il denaro pubblico dalle mie parti, fino a quando era possibile spenderlo, è stato speso bene: ha creato magari anche una forma di clientelismo, ma è stato in grado di garantire a una regione strutturalmente povera, con un tessuto economico minuto e pochissime industrie, una qualità della vita e un'attenzione ai bisogni della popolazione molto alte. Lo Stato, in Umbria, arrivava dove non arrivavano l'economia e il mercato. Dopo che i rubinetti pubblici sono stati chiusi, qua non è rimasto quasi niente. Emilia-Romagna e Toscana, le altre repubbliche socialiste d'Appennino, hanno invece una struttura economica più solida. Ecco perché loro hanno retto e noi no, secondo me. La risposta alla domanda, in verità, è però questa: principalmente perché siamo più poveri di prima, e non riusciamo a farcene una ragione. Quindi abbiamo bisogno di capri espiatori, e diamo retta a chi ce li offre. Anche se preferirei parlare di rabbia, frustrazione, livore piuttosto che di razzismo e fascismo. Chi vota Salvini o Meloni oggi è soprattutto arrabbiato e frustrato. Se pensassimo che oltre il 40% degli italiani sia diventato razzista e fascista sarebbe un dramma. Invece questa gente, almeno in parte, credo si possa recuperare alla causa. Con una politica capace di ridurre le diseguaglianze, innanzitutto. E con forme di rappresentazione della realtà meno tossiche di quelle a cui siamo stati abituati negli ultimi anni».
Con i libri, anzi con i romanzi, si può fare qualcosa?
«Forse poco, anche perché chi legge romanzi ha in media meno problemi del genere rispetto agli altri (ha sicuramente molti altri problemi, come tutti, ma forse non questi). Ma raccontare è quello che so fare, e ci provo».
Altro romanzo profondamente politico, Baboucar, raccontava la vita normale di 4 richiedenti asilo che vivevano una vita sospesa in attesa del sospirato documento. Qui invece racconti la storia di un normale imbianchino italiano. Ecco la normalità. Mi piacciono molto questi tuoi due libri perchè raccontano storie normali che però fanno capire quanto complessa sia la realtà e di conseguenza quanto siano stupidi i giudizi e le conclusioni affrettate. Ora la domanda: i social, che sono il regno della semplificazione e impediscono di andare a fondo delle questioni, sono strumenti di destra? Oppure i politici di destra li sanno usare meglio? E possibile un uso virtuoso di Facebook o l’unica soluzione è scappare a gambe levate?
«Io mi interrogo ogni giorno su quanto abbia senso, per me, restare sui social. Cambio idea in continuazione, ma alla fine non scappo, anche perché per quello che faccio – i libri, i giornali, le manifestazioni letterarie - i social sono importanti. Io, da buon quarantatreenne, utilizzo soprattutto Facebook. Scrivo spesso, e spesso mi pento di aver dato la stura a dibattiti quasi sempre pieni di aggressività. I social non sono strumenti di destra, ma di sicuro solleticano molto le viscere: grazie agli smartphone, in particolare, molti filtri sono saltati, chi scrive lo fa di impulso, a volte compulsivamente, in preda a un'eccitazione che di rado finisce per essere costruttiva. Non sono un antropologo né un sociologo, ma uno scrittore dovrebbe avere uno sguardo particolarmente attento su quello che lo circonda: ciò che posso dire è che sui social passano meglio i messaggi semplici e semplicistici, e visioni riduttive della realtà, che invece è una questione complessa, sempre. Se chi li utilizza non ha strumenti culturali adeguati rischia di lasciarsi trascinare in correnti torbide. E a volte non basta neanche quello».
A proposito di Baboucar, quel libro ti ha dato molte soddisfazioni, e riconoscimenti. Qual è la cosa più indimenticabile successa in giro per l’Italia a presentare quel libro?
«È stato davvero un giro d'Italia entusiasmante. Credo che le giornate trascorse nell'istituto minorile “Ferrante Aporti” di Torino siano state in assoluto le più intense che abbia vissuto da quando scrivo i miei libri e vado a parlarne da questa o quest'altra parte. Discutere di letteratura con ragazzi di venti, sedici o quattordici anni privati della loro libertà personale è stato a tratti surreale: cosa potevano mai contare, le mie storie, al cospetto delle loro vite? A pensarci bene in fondo questa è la domanda che dovremmo porci noi scrittori di fronte a qualsiasi tipo di interlocutore. Solo che quelle vite, non so se mi spiego, erano più vite di quelle di chiunque altro. In qualche modo abbiamo trovato un canale di comunicazione, un equilibrio, ed alla fine è stata un'esperienza splendida. Sfiancante e splendida».
Hai mai pensato di dare un seguito a Baboucar?
«Sinceramente no. La storia di Baboucar e gli altri, per me, è finita lì. Molti lettori mi hanno chiesto cosa sarebbe potuto succedere a quei ragazzi, qualcuno mi ha chiesto di scrivere un seguito, qualcun altro ha voluto sapere se esistessero persone in carne e ossa a cui mi ero ispirato per dar vita ai personaggi. L'unica domanda a cui posso rispondere compiutamente è proprio quest'ultima: in parte sì, e so benissimo cosa fanno adesso i ragazzi pensando ai quali ho plasmato Baboucar, Yaya e Ousman. Hanno avuto traiettorie molto diverse, alcune anche particolarmente accidentate, ma adesso, bene o male, posso dire che le cose non gli vanno male. Sono uomini molto giovani, hanno ancora quasi tutta la vita davanti. Spero che sarà, per tutti, una vita bella».
Ti senti più giornalista o scrittore? Cosa c’è scritto nella tua carta d’identità alla voce “Professione”?
«Fortunatamente sulla carta d'identità elettronica la voce “professione” non c'è più. Un raro esempio di adeguamento ai tempi correnti da parte del legislatore. Seriamente: il mio lavoro cambia continuamente, da quando ho iniziato a lavorare. Nel 2004 ho cominciato a scrivere in un giornale locale che oggi non esiste più, come parecchie delle testate cartacee con cui nel tempo ho collaborato. Nel frattempo ci sono stati i siti, i progetti legati al racconto di progetti del terzo settore, poi i festival letterari, naturalmente i romanzi. Adesso dirigo un free-press bimestrale che parla di Perugia cercando di proporre una rappresentazione costruttiva e che rifugga gli stereotipi, concentrandosi sull'associazionismo, la cultura e il sociale. Si chiama “Luoghi Comuni”, è per me un'esperienza bellissima. Non so quanto durerà, come non so quando uscirà il mio nuovo romanzo».
Quante ore al giorno dedichi alla scrittura narrativa? Hai un metodo o segui l’ispirazione?
«Dipende. Principalmente dai carichi di lavoro e dalle idee che ho in mente. Quest'estate, per esempio, non potrò scrivere nemmeno una riga. Sto lavorando forsennatamente, dopo mesi di magra in cui invece mi sono dedicato molto alla ricerca e alla scrittura narrativa. Non ho un metodo definito, ma dopo anni posso dire di aver capito un paio di cose: mi ci vuole un po' per capire cosa vale la pena raccontare, ma quando comincio la mia scrittura è piuttosto alluvionale. Le mie prime stesure richiedono poco tempo, tutto sommato, poi mi serve far sedimentare il testo, quindi ci rimetto le mani».
Tu sei tra le anime del festival di letteratura ispanica Encuentro a Perugia. Che novità ci sono su quel fronte?
«Stiamo provando a ipotizzare un'edizione al Lago Trasimeno per metà settembre. Abbiamo già degli ospiti confermati, ma ci sono delle variabili che non dipendono da noi. La situazione sanitaria in primis, poi un finanziamento regionale che sarebbe vitale, e che per ora è in forse. Vedremo».
Ed eccoci ora ai tuoi libri belli da consigliare ai lettori.
Il libro che dice più cose de sinistra?
«Tutti i buoni libri, se sono davvero buoni, dicono cose di sinistra. Anche quando non sembra. Ma quello a cui sono più affezionato, da quasi trent'anni, è Conversazione in Sicilia, di Elio Vittorini».
Il libro in cui hai desiderato di essere il protagonista?
«Ogni giorno potrei dare una risposta diversa. Oggi è questa: Il re della pioggia, di Saul Bellow».
Il libro più divertente che hai letto?
«Tre uomini in barca, di Jerome K. Jerome».
Un giallo/noir spagnolo o latinoamericano da tenerci inchiodati sotto l'ombrellone?
«Il centravanti è stato assassinato verso sera, di Manuel Vázquez Montalbán».
Grazie Giovanni, per questa settimana è tutto.
Buon ferragosto e W il cocomero.